Riconoscere l’ansia: una sfida per l’internista

Ansia. Parola moderna per eccellenza. Chi non ce l’ha? Anch’io ne ho avuta un po’ accingendomi a scrivere queste righe. Perché l’ansia è parte di noi da sempre, perché da sempre ci aiuta a riconoscere il pericolo e a fuggire. A porci un obiettivo e raggiungerlo, nel lavoro come nello sport. Insomma a realizzare una prestazione fisica e psichica utile alla nostra sopravvivenza o alla nostra soddisfazione, attivando il sistema limbico e l’asse ipotalamo-ipofisario per il rilascio di ormoni.  Ma circa 100 anni fa il dr. Freud ha aggiunto una parolina a questa utile capacità: disturbo. Da allora l’ansia è diventata una malattia e negli ultimi 25 anni la vendita di farmaci per curarla ha superato quella dell’aspirina negli Stati Uniti. Ma quando l’ansia da utile diviene pericolosa? E come distinguere i sintomi dell’ansia dalle patologie organiche più comuni (ictus, infarto miocardico, insufficienza respiratoria)? Quando l’ansia è una patologia a sé stante e quando invece deriva da altre malattie organiche gravi che mettono l’individuo a contatto con la sofferenza?

Troppe domande. Non so se avrò tutte le risposte. Una volta definita l’ansia utile, o fisiologica, come quella capacità di affrontare sfide, situazioni difficili, pericoli con prestazioni valide, risulta evidente che l’ansia patologica è quella che non risponde ad uno stimolo esterno (manca il leone da cui fuggire) o che risponde con eccessiva produzione di ormoni ad uno stimolo irrilevante per la media delle persone (la paura di luoghi chiusi o delle piazze aperte, le varie fobie, etc.), avendo come risultato uno scadimento della prestazione. E’ quindi il risultato che aiuta a definire l’ansia distinguendo la fisiologica dalla patologica.

Quando l’ansia patologica si manifesta, sia in modo acuto- “attacco di panico”-, che in modo continuativo -“ansia generalizzata”- si attivano risposte somatiche (sintomi), cognitive e psico-comportamentali. Non mi soffermerò su queste ultime, non essendo una specialista, ma concentrerò la mia attenzione sui sintomi e sulle malattie che possono accompagnarsi o essere  mascherate dall’ansia.

Per il medico internista, a mio parere, l’ansia deve essere una diagnosi di esclusione. Troppe volte durante la mia esperienza mi è capitato di diagnosticare gravi patologie a pazienti “etichettati” come ansiosi. Quindi, innanzi tutto valutare i sintomi. Qui casca l’asino. Perché la nostra simpatica ansia simula disturbi cardiovascolari come la tachicardia, il senso di vuoto /oppressione al petto, il dolore toracico acuto all’emitorace sinistro con irradiazione all’ascella o al braccio sinistro, picchi ipertensivi, vampate di calore o brividi di freddo. Talvolta invece si presenta con sintomi respiratori, come la mancanza d’aria, l’aumentata frequenza respiratoria, l’aumentata profondità dei respiri. Non omettiamo tutti i sintomi neuro-vegetativi come la cefalea, le vertigini, i ronzii auricolari, la sudorazione profusa, gli svenimenti, l’insonnia.

E allora? Come evitare un elettrocardiogramma con enzimi cardiaci e visita cardiologica a chi ci riferisce un dolore toracico? Una radiografia del torace per  una difficoltà respiratoria, o una T.C. cranio per una perdita di coscienza? Assolutamente difficile, se non impossibile. Ma bisogna anche considerare che, secondo alcuni dati di letteratura, l’ansia sarebbe alla base di oltre il 30% del ricorso ai servizi sanitari, soprattutto in urgenza. Quindi parliamo ormai di una malattia sociale. Ed il ricorso alla medicina difensiva una scappatoia quasi inevitabile.

Ma c’è una parola su cui i nostri antichi maestri battevano ogni giorno di lezione. Anamnesi. Ascoltare i pazienti. “Se saprai ascoltare bene il paziente, ti dirà lui la diagnosi.” Così ci ripetevano quando ho iniziato a frequentare gli ospedali, già durante il corso di laurea. Recenti dati ci dicono che un medico (americano, ndr.) non riesce ad ascoltare un paziente senza interromperlo per più di 11 secondi. Eccolo il segreto per vincere la sfida. Ascoltare il paziente, interrogarlo quando sembra aver concluso la sua disamina. Se lo facessimo, ci racconterebbe che oltre al sintomo principale, lamenta disturbi del sonno (incubi, sonno non riposante, risvegli precoci), episodi di contrazioni muscolari, irrigidimenti, perdita della libido o difficoltà sessuali (ejaculatio precox, frigidità, vaginismo). Problemi digestivi quali nausea, senso di gonfiore, flatulenza, perdita di peso, stipsi. Inoltre ci saranno tutti i segni della comunicazione non verbale. La fronte corrugata, il tremore alle mani, i sospiri, la deglutizione ripetuta, l’agitazione, il camminare avanti e indietro. Sono tutte richieste di attenzione che il medico deve cogliere anche se il paziente non ne è consapevole. Quindi ascoltare il paziente ci mette in condizione non di evitare esami diagnostici a volte indispensabili, ma di incamminarci sulla strada della diagnosi, senza innescare ulteriori ansie circa il risultato degli esami stessi.

Una parola a parte meritano le sindromi ansiose secondarie a patologie croniche. Le malattie neoplastiche, la cardiopatie, le malattie respiratorie e quelle digestive, le malattie neurologiche. Tutte mettono il paziente a contatto con la propria fragilità e con la paura di morire. L’ansia secondaria si innesca su questi sentimenti e complica i sintomi delle patologie primitive. Discernere l’ansia secondaria dai sintomi primari costituisce un’altra sfida che l’internista deve affrontare con le armi che gli sono consone. Attenzione ed ascolto.  Riconoscere l’ansia e trattarla correttamente anche con l’aiuto dello psichiatra rappresenta una sfida da vincere  nell’attività quotidiana dell’internista, per guadagnare la fiducia dei pazienti e ridurre i costi della medicina difensiva.

Dott.ssa Enrica Nigro – Medico Internista

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